Gian Carlo Caselli - giugno 2013
Bruno Caccia venticinque anni dopo
Sono passati 30 anni dal 26 giugno 1983, quando venne assassinato (da un insediamento torinese della ‘ndrangheta) il Procuratore di Torino Bruno Caccia.
Il suo omicidio fu purtroppo l’ennesimo segmento di una interminabile sequenza di uccisioni di valorosi magistrati, vittime della violenza terroristica o mafiosa. A quei tempi, che sembrano tanto lontani ma sono nel cuore così vicini, i magistrati si uccidevano. Ma non si disonoravano.
Nella sentenza di condanna (definitiva) di uno degli imputati dell’assassinio di Bruno Caccia, appartenente lla famiglia Belfiore, si legge che egli “era uno di quei magistrati che non vengono a patti con la criminalità”. E che “era accanito contro la criminalità organizzata”.
Accanito… Quante volte abbiamo sentito ripetere questa parola, negli ultimi anni e ancora oggi, con riferimento a magistrati “colpevoli” unicamente di fare il loro dovere, anche nei confronti di poteri forti o di interessi refrattari al controllo di legalità. Accanito… Ecco una parola che costituisce un titolo di merito se riferita ad un magistrato morto, mentre per i magistrati ancora vivi – ma scomodi – viene spesso usata come una clava. Strano il destino di questa parola. Strano, ma illuminante.
Bruno Caccia era accanito nel senso che ricercava la verità con determinazione. Sempre attento alle regole ma non indifferente ai risultati. Scrupoloso nell’adempimento dei suoi doveri. Senza sconti per nessuno. Per lui non contava lo “status” sociale, economico o politico di questo o di quello, come non contava la caratura criminale. Nulla che non fosse la legge poteva influire su di lui. Dunque, l’accanimento di Caccia intrecciava il senso dello Stato con la responsabilità individuale. Inestricabilmente.
Quel “senso dello Stato” traeva origine da una convinzione profonda: che solo la convivenza pacifica è convivenza civile; nella quale soltanto possono trovar sviluppo altri valori, quali libertà, solidarietà, eguaglianza, fratellanza, giustizia. E però la pacifica convivenza necessita di regole; di regole che devono essere osservate. E compito del magistrato è appunto quello di farle osservare. A tutti. Altrimenti si apre la strada alla sopraffazione del più forte sul più debole, del criminale sulla vittima.
Ben si comprende, allora, perché Bruno Caccia sia – ancora oggi – un modello per tutti i magistrati che hanno avuto il privilegio di stargli accanto (io sono stato tra questi ai tempi delle inchieste sui capi storici delle Brigate rosse) o di conoscerne la storia. Ma anche un punto di riferimento ben oltre la cerchia giudiziaria.
Come prova il fatto che una cascina di San Sebastiano Po (Torino), confiscata proprio alla famiglia Belfiore e ora assegnata a “Libera”, a Bruno Caccia e alla moglie Carla sia stata intestata dai giovani che coraggiosamente la gestiscono, con impegno quotidiano perchè la legalità renda i cittadini sempre più alleati dello Stato.
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