'Di Caponnetto non ne parlavano e ne parlano mai'
Sabato 01 Giugno 2013 09:28
di Isabella Pascucci - 31 maggio 2013
Cinque nipoti adorati e una vita al fianco del magistrato che ha inventato, dato vita e visto colpito a morte il Pool antimafia: Antonino Caponnetto. Ad Elisabetta Baldi Caponnetto piace essere chiamata Nonna Betta. E vuole che le si dia rigorosamente del ‘tu’. Chiama suo marito ‘il nonno’, il nome in codice dato al giudice durante gli anni di piombo di Cosa Nostra.
Quando hai saputo dell’attentato di Capaci, hai pensato che avesse vinto Cosa Nostra?
«No, mai. Del resto, Falcone sapeva che lo avrebbero ammazzato a Palermo. Questo il motivo per cui aveva chiesto di guidare, quasi sicuro che la fine sarebbe arrivata presto. E quando Borsellino telefonò al nonno gli disse: “È morto tra le mie braccia”. Lo stesso Borsellino sapeva bene, dal giovedì precedente alla strage di via d’Amelio, che a Palermo era arrivato il tritolo destinato a lui e alla sua scorta. E quando mio marito lo salutò quel giovedì, dicendo “Ci si rivede la prossima volta”, Borsellino rispose “Ma sei proprio sicuro che ci sarà una prossima volta?”. E lo abbracciò, disse mio marito, con una forza così alta da fargli male. Non ci hanno mai detto chi fosse presente all’ufficio Sicurezza il giorno di quell’attentato: nessuno si era preoccupato di far sgombrare la strada dalle macchine, così fu possibile piazzarci l’esplosivo».
Tuo marito temeva di poter essere bersaglio della Mafia?
«Quando fu istituito il Pool a Palermo e lo intervistarono, chiedendogli “Sa a che cosa va incontro?”, rispose: “A 63 anni si può mettere in conto anche la morte”. Non c’ha mai pensato, non ne ha mai parlato e non ha mai avuto paura. Nonostante tutto, abbiamo vissuto bene anche in quei quattro anni ».
Eppure quelli del Pool e delle stragi mafiose non furono anni facili.
«Ricordo il giorno in cui si consumò l’attentato a Rocco Chinnici: il nonno non mi disse nulla. Ma io qualcosa gli dissi, accusandolo di quell’omissione. E mio marito mi fulminò con la sua risposta: “E non mi ringrazi?”. Mentre il nonno era a Palermo, vivendo protetto in una caserma della Guardia di Finanza, restai sola a Firenze per quattro anni e quattro mesi, a ricevere quotidianamente minacce. Dopo la firma della sentenza del maxiprocesso, trovai una corona da morto addossata al cancello della mia casa. Ma la scostai e uscii. Senza paura. Nino venne a trovarmi solo tre volte, per pochi giorni. Però, avevamo quella nostra telefonata quotidiana a mezzogiorno, e quella telefonata mi faceva dire “non sono sola”. Poi, è tornato e abbiamo iniziato a vivere con cinque scorte. E anche per loro, il nonno era un padre: gli unici eroi sono le scorte. Sono più di un parente».
Come cambiò la vostra vita?
«Non potevamo andare in giardino e neanche affacciarci alla finestra. E non sono mai potuta andare a fare una ‘giratina’ fuori, mano nella mano, con Nino. E questa è una cosa che mi è sempre mancata. Però, dopo quei 4 anni e 4 mesi così sofferti, averlo 24 ore su 24 accanto era straordinario, anche se Nino non era un uomo che chiacchierasse, non era un ‘compagnone’».
Com’è stata la vostra vita insieme?
«Abbiamo trascorso la nostra vita in silenzio. Però il cervello del nonno lavorava sempre, era sempre in moto. Anche quando partivamo la mattina con le due macchine della scorta a farci ala, il nonno scherzava con loro, come fossimo una grande famiglia allargata. Insomma, quel silenzio era denso di affetto. Quando sedevamo sulla stessa poltrona, appoggiavo la testa sulla spalla di Nino, quello era l’angolino per me. E ora mi manca tanto l’angolino del nonno. Quando posso lo chiedo ai miei figli».
Chi era l’uomo di cui si è innamorata?
«Mio marito iniziò a scrivere un diario il 5 settembre 1940, quando compì vent’anni, dicendo che avrebbe avuto come guide sempre l’onestà e la solidarietà. Studiava Legge, ma si chiedeva perché continuasse a studiare una materia così arida, dal momento che non avrebbe avuto intenzione di lavorare tra quattro mura né come avvocato, né come notaio o giudice. Finita la guerra ebbe un posto come cassiere in Banca. Ma subito dopo, iniziò a studiare per il concorso in Magistratura, tutte le notti, fino alle tre di notte. E vinse al primo tentativo».
Ora una Fondazione ricorda quel giudice coraggioso.
«La Fondazione è nata anni fa, perché nell’immaginario collettivo esistevano solo Falcone e Borsellino ma di Caponnetto non ne parlavano e ne parlano mai. Anche quando siamo andati all’inaugurazione dell’anno accademico c’erano le foto e i cartelloni dei giudici simbolo della lotta alla mafia, ma quelli del nonno no. Ed è qualcosa che fa tanto, troppo male».
Isabella Pascucci (www.articolo21.org, 31 maggio 2013)
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