Io, che in quella periferia ci vivo, ho sempre pensato a quella canzone di Lucio Dalla, “Anna e Marco”, come all’evoluzione anni ’80 dei ragazzi di borgata. Non più emarginati con il destino scritto nell’espressione dura e nello sguardo furbo, ma una umanità sognante e dimentica della bruttezza in cui era destinata a vivere.
Oggi, alla metro Anagnina si assembrano i nuovi emarginati, frotte di immigrati dell’est, filippini, cinesi, e tanti italiani e italiane chini sullo schermo di un Iphone, di un tablet, o con cuffie di tutte le fogge, collegate ad Ipad di tutte le fogge.
Non riesco a vederne lo sguardo, perché non hanno occhi che per il loro giocattolino della solitudine, né del resto potrebbero ammirare un paesaggio che non c’è in quel budello oscuro.
Io decido scientemente e tassativamente di chiudere gli occhi per tutto il viaggio. Voglio dimenticarmi di essere lì, forse vogliono farlo anche loro.
Forse è questa la differenza coi viaggi pasoliniani. Quelli erano viaggi ad occhi aperti, quando non c’era la metropolitana, e si andava alla conquista della città, avvicinandosi poco a poco, misurando le distanze e scorgendo le trasformazioni, dai pratoni ai giardini, dai casermoni ai palazzi antichi, dal disordine abusivo al decoro alto borghese.
E questa specie di maggiore consapevolezza rendeva più significativo qualsiasi spostamento, legava i propri pensieri ad immagini fugaci scorte da un finestrino, l’umore poteva cambiare dietro un raggio di sole riverberato dalla vetrina di un bar, potevi persino scoprire un elemento nuovo nel vecchio rosone della chiesa che costeggiavi tutte le mattine.
Oggi, intubati nel fragoroso buio di una vettura della metropolitana, tutti scansano l’intorno, e fissano ostinati uno schermo, fingono di dormire o seguono note misteriose con occhi vacui da stranieri.