* Radames e la Banda dell'Ortica *"Radameees! Radameees! duv' a l'è quel fioeul d'un can del Radames?"Il coro era intonato da un gruppo di "giovanotti", quegli uomini non più ragazzi, ma non ancora in grado di assumersi le responsabilità di padri di famiglia quali in realtà già erano, preferendo passare il sabato pomeriggio a bighellonare con gli amici per le osterie del quartiere cantando canzonacce che avrebbero fatto arrossire un caporale. Il quartiere era proprio l'Ortica, quello della banda il cui famoso palo "
a vederci, non vedeva un'autobotte, e a sentirci ghe sentiva un accident".
Banda che riecheggiava le imprese di "
quei de la Mascherpa", gruppo che faceva parte della criminalità popolare e casareccia della Milano del dopoguerra dedita soprattutto al furto di fili elettrici per rivenderne il rame. Era l'ambiente descritto dalle canzoni di Jannacci e Gaber, e prima di loro da Ivan della Mea, cantautore milanese ingiustamente sottovalutato.
L'Ortica apparteneva ancora a quella terra di nessuno situata fra il cemento che avanzava e le distese nebbiose da cui emergeva qualche spettrale cascina, ed era divertente per noi giovani provenienti dal centro esplorare quel mondo in estinzione alla ricerca di trattorie casalinghe e di vino più o meno buono, ma comunque economico. Non era raro dunque incontrare qualche gruppo di buontemponi come quelli del
Radames, versione pecoreccia ma musicalmente fedele all'opera verdiana. La strofa infatti continuava così:
Celeste Aida, forma divina, sbattemus i ciapp, cicipp e ciciappfaremo l'amor, l'amor, l'amor.Celeste Aida, forma divina, m'hai rovinato la canna del bambù...Non era che la parte più presentabile del loro repertorio. La canzone successiva era infatti del seguente tenore:
Là in sulla spiaggia ghe sun quatercent quarantaquatermila quararantaquater cù che caghensensa un tuchett de carta, sensa un tuchett de carta Là in sulla spiaggia ghe sun quatercent quarantaquatermila quararantaquater cù che caghensensa un tuchett de carta pe' nettase el cù. Già la raccapricciante immagine di quella spaventosa moltitudine di colitici che ingombrava la povera spiaggia aveva una potenza narrativa che raggiungeva l'infimo
, l'aulico e l'epico nello stesso tempo, una visione dantesca con illustrazioni di Doré, lì dove anche le peggiori vergogne dell'umanità si confrontano col divino quale sua antitesi.
Il seguito della strofa era però talmente trucido e blasfemo da risultare irriferibile e ve ne faccio grazia, ma l'ilarità rabelaisiana che si scatena in quell'attimo sospeso nel tempo, nel calore di un'osteria nascosta nella nebbia di una periferia che non c'è più, era irrefrenabile e malinconica allo stesso tempo.
Gli applausi sono infatti scroscianti, e a quel punto, forte di qualche trucco del mestiere, decido di portare il mio contributo allo spettacolo. Si trattava di coinvolgere il pubblico assegnando a parti di esso ruoli specifici.
Un gruppo doveva ripetere ritmicamente la frase
tocchi tocchini tocchetti de pan, con cadenza più veneta che lombarda, altri
tocchi de pan, tocchi de pan, tocchi de pan, de pan, de pan, altri ancora
ses per ses fa trentases, cinq per cinq fa venticinq, oppure
vott per vott sessantaquatt, fino ad ottenere un'ossessivo, tonitruante e martellante clangore ritmico di fondo su cui poi innestare il corpo principale della lirica.
Nella mia esperienza a quel punto doveva partire il motivo di
Brasil, magari con un accenno di trenino capodannesco, ma in omaggio alle melodie precedenti attacco proprio con la marcia trionfale dell'Aida, seguito in breve dall'intera compagnia di mattacchioni:
Pa paaaa parapapappappà parapappà papà, pa, pa, pa pa. Un delirio, un'osanna, un successo cosmico che manco i Rolling Stones.
Mi rivedo ancora in quella parte, come rivedo i miei compagni di baldoria, figure forse più patetiche che divertenti, simili ai maturi ragazzacci di
Amici miei, che credevano di combattere l'avanzare dell'età restando pervicacemente bambini. Chi dice che quello fosse un film comico, beh, non ha capito nulla.
Jannacci e Gaber non ci sono più, come non esiste più la Milano da essi cantata ed amata, quella in cui a Porta Romana "
passa un ciclista e canta, la voce si allontana...", o dove al Carcano, famoso cinema del centro a frequentazione popolare, negli angoli oscuri l'amore con Veronica si faceva "
in pé".
Resiste Fo, che si autodefinisce "
essere vivente, per il momento". Un po' come tutti, in fondo.
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