Era la fine dell’estate del 1990. In un paesino costiero del Montenegro, le serate erano già un po’ più fresche, ma era ancora piacevole sostare in terrazza a godersi lo spettacolo delle luci sparse a presepe di fronte al nero Adriatico. Le “narodne pesme” , le canzoni popolari, continuavano a martellare sul lungomare, senza sosta, come tutte le sere.
Avevo passato una mattinata in barca e poi mi ero fermata a mangiare cevapcici in una kafana appena aperta, lontano dal paese. Anche accanto a quel muro appena intonacato, sopravviveva la scritta “poslje Tito, opet Tito” ( Dopo Tito, ancora Tito) , che era il vecchio mantra a cui non credeva più nessuno .
Già da qualche anno, nei miei ripetuti viaggi su quella sponda dell’Adriatico,avevo smesso di meravigliarmi dell’arsenale di bombe a mano, pistole e fucili che tutti , tra parenti e conoscenti, ti mostravano con orgoglio e con tranquillità, come se si trattasse di una normale dotazione domestica.
Ma quell’estate si respirava come un’aspettativa, le barzellette stavano diventando più feroci e meno divertenti, si boicottavano apertamente i prodotti della Slovenia, e alla notizia che un serbo aveva violentato e ucciso una ragazza kossovara, i cui fratelli si erano poi vendicati uccidendo tre serbi, si commentava laconicamente che la Croazia aveva vinto per 4 a zero.
La settimana prima avevo fatto un salto a Dubrovnik, in Croazia. Avevo nostalgia di quelle mura intatte, dello stradun, ma non della sua folla, del profumo d’antica grandezza, e delle passeggiate in salita nei vicoli freschi fiancheggiati da piccoli androni e graste di fiori. Un profumo di civiltà mediterranea, veneta, genovese, che mi rincuorava in quell’ambiente comunque slavo, percorso dalla sotterranea ferocia illirica.
Al ritorno, io e il mio accompagnatore montenegrino ci eravamo fermati nei pressi dell’unica panetteria aperta, appena fuori città. Era tardi, ma potevamo almeno farci un panino. Nella vetrina sotto il bancone c’erano rimasti quattro o cinque filoni di pane. L’aspetto sembrava invitante, anche se erano evidentemente gli ultimi della giornata.
Quando scegliemmo il filone di pane e chiedemmo il prezzo, il panettiere sorridente che ci aveva visto scendere dalla macchina italiana, cambiò improvvisamente atteggiamento, sostenendo decisamente che il pane non era in vendita.
Io avevo ben visto che, quando ero entrata, lui si era avvicinato al bancone in attesa di servirci, ed ora sosteneva addirittura che non c’era pane. “ E quello cos’è?”, chiese il mio amico, con una smorfia di disprezzo che mi parve eccessiva, poi mi disse che era meglio andarsene. In effetti, il panetterie pareva irremovibile, freddo e muto.
Io mi era lasciata trascinare fuori, ma ancora non capivo cosa fosse successo. “Perché ci ha detto che non c’era il pane? Che è successo?”
“Lascia stare, non hai capito? Non vuole vendercelo”
“E perché?”
“Parliamo con accento montenegrino”.
“E allora?”
“Lui è croato”.
Ripensandoci, durante il viaggio, mi dissi che forse la tesi del mio amico era dettata da una sua personale interpretazione, che forse il tizio era solo un po’ matto, o che si fosse ricordato improvvisamente che quel pane era stato prenotato da qualcuno, poi mi convinsi che quel particolare episodio era assolutamente plausibile nell’atmosfera malata di quell’estate d’anteguerra.
E me ne convinsi quella sera, quando, a mezzanotte, vidi e sentii per la prima volta sul promontorio a nord una lunga salva di fuochi di artificio. La gente si radunava ai piedi del vecchio castello e sulla banchina del porticciolo. Dai vicoli intorno alla casa dove abitavo, la gente sciamava verso il mare. Mi affacciai sul vicolo posteriore, dove un bambino piangeva, trascinato da sua madre. Il bambino era insonnolito e chiedeva dove andassero così di corsa. La madre, una donna minuta, con un fazzoletto in testa, senza smettere di camminare, rispose: “ Andiamo a morire dove vanno tutti, perché è scoppiata la guerra, figlio mio”.