L’ultima immagine da leader politico che ho di Veltroni è quella legata alla spettacolare manifestazione del Circo Massimo, una immagine di orgoglio identitario, che ci consentiva di perdonargli anche quel suo orribile slogan “I care”, un delirio da yuppy della politica.
Di quelle manifestazioni non abbiamo più visto nemmeno l’ombra, da quando Grillo ha deciso di rispolverarle. Perché va bene il web, ma un sano comizio è il sale della democrazia.
Quando è ricomparso in TV a sponsorizzare un libro tendevamo ancora a concedergli un credito di passato dirigente, serio seppur sconfitto.
E invece, come per la Finocchiaro, scopriamo una classe politica ignara di sé e del paese, legata a parametri morti e sepolti, i fantasmi di una politica pre-berlusconiana, che raccontano e si raccontano una storia di normale dialettica politica.
Anche lo sconcerto di Veltroni, come quello della Finocchiaro, appariva sincero, incredulo che potessero esistere valutazioni diverse su quanto accaduto in vent’anni di politica d’’opposizione e di governo da parte degli eredi del PCI prima, e del PD in seguito.
Non un sussulto di ripensamento su antiche scelte di legittimazione, su sponde affrettate concesse ad un avversario pericoloso per le regole istituzionali e la creazione del consenso.
Al contrario, è scappata anche a lui una considerazione negativa su un elettorato, che è stato lasciato indifeso a fronteggiare la potenza di fuoco di un tycoon della comunicazione.
“Si diventa miopi, quando si diventa pigri”, diceva mia nonna, quando fingevo di non vedere qualcosa che era scomodo da andare a prendere.
Sembra quasi che la caduta del fattore K, con l’automatica legittimazione degli ex-comunisti, abbia fatto scattare negli ex esclusi una sindrome da legittimazione universale, dagli xenofobi leghisti ai portatori di macroscopici conflitti di interesse, svelando così una insospettabile incultura istituzionale.
Il richiamo alla legalità e all’osservanza delle regole comuni dovrebbero essere il primo bagaglio di uno statista, quello tanto scontato da non dichiararsi neppure, mentre la nostra “opposizione” ne ha fatto merce di scambio, in una dialettica politica che ha immediatamente aggirato il confronto leale e trasparente, privilegiando accordi levantini alle spalle del proprio elettorato.
L’interesse del paese è la formula assolutoria usata dagli uni e dagli altri per mascherare tutti gli accordi conclusi alle spalle di questo, reso sempre più povero e abbandonato al destino dei derubati impotenti.
Quella immagine di incomprensione, dipinta sul volto di un uomo dal passato riguardevole, spiega tutto il disastro di questa regressione culturale e civile che stiamo vivendo, mentre i mezzi sorrisi e le finte indignazioni delle Santanchè e dei Ferrara ricostruiscono il quadro secolare dell’Italia cinica e cortigiana, quella pronta a servirsi di chiunque, dal primo straniero che passa all’ultimo mercenario incattivito, pur di farla pagare al vicino.
E nel mezzo delle scorribande che imperversano su un paese esausto, spunta ancora un compìto esponente della sinistra salottiera, già segretario e candidato premier, a sventolarci sotto il naso l’ennesimo libercolo senza storia, del tutto inconsapevole della sua incongruità.